Storia dell'arpa

L’arpa tra mitologia e simboli

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Addentrandosi sui significati che l’arpa assume nel corso dei millenni, ci si accorge che ella condensa in un solo e unico simbolo gran parte dei concetti fondatori del pensiero musicale occidentale. Il suo percorso presenta una toccante alternanza di grandezze e di declini. Madre di tutti gli strumenti a corda – lira, citara, liuto, clavicembalo e, infine, pianoforte – l’arpa raggiunge nell’epoca in cui troneggia nei saloni di regine e nobil dame, l’apogeo della sua gloria. Il XIX secolo esalta, coltiva ed esaspera tutti quei fantasmi che possono associarsi all’arpa da cinque millenni, a cominciare dal sue eterno “femmineo” che rimonta alla preistoria. Poi, bruscamente, all’alba del XX secolo la sua fortuna lentamente scema e i merletti dorati del mito che incarna, cominciano a coprirsi della polvere dell’oblio.

Ma cominciamo dall’inizio, da quel tempo in cui l’arpa risuonava carezzata dalle divine dita degli abitanti dell’Olimpo.

1. L’Antichità

L’Antichità greca, la cui autorità pesa più significativamente di quanto oggi si possa immaginare sulla nostra cultura musicale, trasmette all’Occidente la convinzione che numeri, note e strumenti abbiano un sesso.

La definizione della consonanza come conciliazione di tensioni antagoniste fa dell’ harmonia il simbolo per eccellenza dell’amore. I pitagorici del V secolo prima dell’era cristiana, decretano che le note traducono dei numeri e che l’harmonia in musica è il frutto dell’amore tra il pari e il dispari. Per dimostrarlo utilizzano una tecnica di calcolo che consiste nel dispore sassi sulla sabbia (psêphoi in greco, calculi in latino) che permette loro di associare il dispari al mascolineo e il pari al femmineo. Il dispari è maschile in virtù della sua unità centrale che si associa al membro virile; mentre “il vuoto centrale” nel cuore del numero pari ne fa un emblema della matrice del Kaos che ha generato il mondo, un simbolo dunque femminile.

Nella Grecia dell’Antichità, paese dove anche i numeri hanno un sesso, gli strumenti non possono che allinearsi allo stesso ordine di cose. Se l’arpa, in virtù del vuoto centrale della sua cassa di risonanza, lo stesso vuoto che si impone al centro di un numero pari, diviene l’immagine più eloquente dell’universo al femminile e dell’harmonia figlia dell’amore del pari e del dispari, l’aulos, il doppio oboe che riecheggia tra i marmi dei teatri greci, in ditirambi e riti fallici, è la rappresentazione per eccellenza dell’universo maschile. Un aulos tra le labbra di una gentil doma ne fa una cortigiana e se le prefiche professioniste possono farne uso è perché all’uomo, a quei tempi, non è permesso il pianto, debolezza e consolazione concessa unicamente al gentil sesso.

La visione antropologica del cosmo propria all’antichità crea, inoltre, una confusione feconda e parlante tra la tensione delle corde e quella dell’anima alla mercé delle passioni. In una celebre satira, Orazio è dipinto dal proprio schiavo Davus come un uomo istabile e schiavo dei sensi:

“Duceris ut nervis alienis mobile lignum”

(Sei menato come legno molle dai nervi altrui).

Facile rilevare una significativa analogia. Nervus, dal greco neuron, designa al tempo stesso i nervi umani e le corde della lira il cui potere magico può soggiogare l’uditore privandolo della propria libertà. L’anima è dunque una lira e la lira una sorta d’anima. Nell’immaginario pitagorico, l’harmonia è un corpo aereo che s’invola nei cieli incarnandosi poi negli strumenti musicali. Ancora oggi nel Medio Oriente non si esita a venerare nell’arpa le divinità la cui parola ha creato il mondo e, per la stessa ragione, l’arpa figurava tra gli attributi degli angeli del paradiso cristiano.

2. Dal Rinascimento ai giorni nostri

L’arpa, incarnazione “naturale” dell’immagine della donna , dell’amore e dell’ harmonia, attraversa gloriosa la nostra storia fino al Medioevo. Poi la scrittura musicale si complica, si arricchisce e per l’arpa cominciano i problemi. “L’angelico strumento” che ha fatto la gioia dei beati nelle visioni del paradiso medievale è di fatto uno strumento diatonico, – immaginate un pianoforte senza i tasti neri! – e, di conseguenza, inadatto alle esigenze della nuova musica, ricca di modulazioni e deviazioni modali.

Prima di “rifarsi il trucco”, di re-inventarsi, l’arpa genera una sfilza di “arpe meccaniche” e così nascono clavicitherium, clavicordi, spinette, virginali e clavicembali. Le dita dei musicisti dalle corde passano a tastiere provviste dei dodici semitoni della scala cromatica. Ma non siamo alla fine dell’ “apollineo instrumento”. Si tratta solo di una pausa. Il Rinascimento inventa arpe doppie e arpe triple. Poi, dalle fucine dei liutai nasceranno ancora le arpe a pedali, a semplice o doppio movimento.

C’è dell’altro, del nuovo. Se l’Antichità è molto liberale quanto al sesso dell’arpista, l’Occidente cristiano lo è meno e ripropone una diversa immagine femminile dell’arpa.

Le grandi dame della buona società incarnano il nuovo medello di donna/arpista. Per loro i migliori liutai concepiscono strumenti sontuosi, riccamente e straordinariamente decorati. È il caso di Isabella d’Este, Elisabetta d’Inghilterra, Marie-Antoniette, Madame Récamier o la contessa de Genlis, solo per citare gli esempi più conosciuti. In questa ottica, la condizione dell’arpa nella storia è parallella a quella della donna e del suo ruolo nella società. L’arpa, accarezzata dalle docili dita di dame esaltate come angeli musicisti, alle quali l’etichetta non permette di prodursi in concerto, e forte della sua funzione decorativa, troverà posto in ogni salone del bel mondo e, escluse rare eccezioni, l’ “emancipazione” dell’arpa la si deve all’uomo, che in tutta libertà può fare della musica un mestiere. Nel XVIII secolo, i tre compositori che più hanno contribuito al repertorio arpistico – Krumpholtz, Dussek e Spohr – hanno tutti una donna arpista prefessionista a casa che con discrezione suona all’ombra del marito, mentre i grandi virtuosi dello strumento che la storia ricorda sono tutti uomini: Cardon, Hockbrucker, Meyer, Hinner, Naderman, Petrini, Parish-Alvars, Hasselmans, Godefroid. In pieno Romanticismo, la segregazione dei sessi a Parigi ricorda quella d’un convento. Cherubini, che dirige il Conservatoire della capitale francese, apre infatti una classe d’arpa “pour les messieurs” nel 1825 e una “pour les dames” nel 1835.

Siamo all’apogeo dell’arpa, a quel XIX secolo ricco di repertorio e virtuosi che, come si è detto, rivaluta e crede nel “mito” dell’arpa che un’antichità lontana gli ha trasmesso. Il Romanticismo può facilmente accordarsi con la tradizione del passato che prevede proporzioni matematiche che generano consonanze e identiche proporzioni diano vita ad ogni virtù, orchestrano i movimenti degli astri, determinano la salute del corpo e dello spirito e regolano le norme del bello, del buono e del giusto mezzo. Accordando l’arpa, producendo armonici su di una stessa corda o semplicemente lasciando scorrere le mani sulle corde dello strumento se ne visualizzano necessariamente sezione e lunghezza. L’arpista, toccando letteralmente con le dita la relazione tra i rapporti numerici semplici e le consonanze, come l’Apollo greco – divinità della chiarezza, della Ratio e coreografo delle Muse – è parte dell’harmonia universale.

L’arpa intrattiene inoltre legami con la demonologia e la magia legati questi però ad un differente fenomenmo armonico: la vibrazione simpatica delle corde, particolarmente percettibile su questo strumento. Come tutti sappiamo, se pizzichiamo la corda di uno strumento ben accordato, altre corde entrano in vibrazione senza essere state nemmeno sfiorate. L’assenza di ogni contatto diretto offre un modello particolarmente suggestivo per le spiegazione dei fenomeni magici. Come la trigonometria fa per il mondo naturale, la “sympathia” inscrive il mondo soprannaturale in una rete di significative analogie. La simpatia riavvicina il “vicino” al “lontano”, rivelando l’accordo tra le cose, le loro reciproche affinità e la loro azione a distanza. I suoi campi d’applicazione sono l’astrologia, la telekinesis – mettere in movimento oggetti a distanza – la profezia, l’ispirazione, il potere causale dell’immaginazione su ciò che la circonda e ancora il potere terapeutico della musica. Molti gli esempi: l’arpa di re David (kinnor) libera l’anima di Saul in preda al demone della malinconia; Orfeo paralizza le potenze infernali al suono della lira; Arione minacciato dalle naiadi cantando chiede soccorso ai delfini; Eliseo trascinato dallo strumento riceve “l’rradiazione profetica”…

Non può che sorprendere costatare a che punto l’idea dell’armonia universale, che si poteva credere superata e decaduta, rinasca tra i poeti romantici. La visione di un’armonia che sorge autonomamente tra i rumori di una natura animata, abitata dagli spiriti delle acque e dell’aria, si esprime eloquentemente nel successo letterario che riporta l’arpa eolica, strumento autofono, che risuona sull’azione del vento senza alcun intervento umano. Così nel Le chat Murr, Hoffmann immagina una gigantesca arpa eolica a quindici corde metalliche tese tra due torri. Quello di Hoffmann è lo strumento della tempesta “virtuosa”:

“Oh! fa il maestro Abraham, lo so, tu non ami altro che le cose terrificanti, ciò che è realmente selvaggio; e pertanto ho dimenticato di dirti una cosa che avrebbe potuto consegnarti indifeso alle potenze del mondo invisibile. Ho fatto tendere l’arpa eolica che si trova, come sai, sopra il gran bacino; e la tempesta, grande virtuosa, ne ha tratto effetti ammirevoli. Tra le urla e gli scrosci dell’uragano, le esplosioni dei tuoni, gli accordi dell’arpa gigantesca assumevano una voce terrificante. I suoni potenti si succedevano, sempre più rapidi e si assisteva ad un balletto di furie che, ti assicuro, era di grande effetto”.

In questo caso, la stessa creazione artistica si vede interpretata come la conseguenza di un sistema simpatico che unisce l’anima del poeta alla musica del mondo. Come l’apprendista stregone, il poeta mette la natura in movimento e ascolta gli accenti dell’armonia universale, frutto spontaneo del canto della Natura.

Io sono il primo – scrive Lamartine – a far scendere la lira dal Parnaso che donò a ciò che chiamavano muse la stessa fibra del cuore umano, commosso ed emozionato dagli innumerevoli brividi della natura“. In una delle sue Odes giovanili, Victor Hugo mette in contrappunto Lamartine e Chenier presentati come “due voci lontane – la lira e l’arpa – che scendono dal cielo“. E Chenier stesso in un’elegia aveva evocato l’immagine dell’arpa eolica per cantare le lodi dell’oblio e dell’abbandono ai ricordi:

Je suis de ma mémoire absolu possesseur:

Je lui prête une voix, puissante magicienne,

Comme aux brises du soir une harpe éolienne,

Et chacun de mes sens résonne à cette voix

Mon coeur ment à mes yeux, absente je vous vois.1

Durante il XIX sec., grazie ai libretti d’opera, questa mitologia passa dai saloni letterari al teatro, contribuendo tra l’altro al ritorno dell’arpa nei ranghi dell’orchestra sinfonica. Nell’opera che Paisiello compone per l’incoronazione di Napoleone, un’arpa e un corno risuonano lontani come in un altrove nostalgico. Il libretto di Ossian (1804) di La Sueur, maestro di cappella di Napoleone, esige dodici arpe celtiche per accompagnare le favolose romanze del bardo scozzese. Boieldieu utilizza l’arpa nella Dame Blanche (1825) e gli consacra un magnifico concerto. Troviamo un’arpa egizia nell’Aida di Verdi; l’Oro del Reno di Wagner (1854) presenta il numero magico di sette arpe celesti, sei in scena e una tra le coulisses. Nei Racconti di Hoffmann di Offenbach, Il dottor Miracolo spinge Antonia a cantare evocando, per tentarla, lo spirito della sua defunta madre. Il suo ritratto appeso al muro prende vita e la sua voce risuona dall’aldilà su una sfondo di arpa le cui metamorfosi tonali alludono a trasformazioni alchemiche…

Il XX secolo, più concreto e meno avido di miti e di poesia, non perdona e, in ogni caso, si mostra meno sensibile all’insieme di immagini e significati che l’arpa porta con sè dalla notte dei tempi.

L’opera lascia il posto al cinema. In Prova d’orchestra di Fellini, il corpo armonico dell’arpa – unico strumento che non si rivolta contro il direttore d’orchestra – viene fatto a pezzi da una palla d’acciaio che oscilla nella sala prove. Un giorno, un giornalista chiede al cineasta: “Perché l’arpista è la vittima privilegiata della palla d’acciaio che si abbatte sulla sala? Bisogna vederci un significato particolare?” Fellini risponde: “È il sacrificio dello spirito. Il corpo dell’armonia distrutto dalla barbarie del XX secolo.” Paul Klee, che ha già sentito soffiare il vento della catastrofe, scrive ancora nel suo diario:

 “Conosco bene la maniera di risuonare dall’interno come un’arpa eolica; conosco l’ethos (il potere psichico della musica), conosco ancora il versante patetico della musica e mi è facile elaborarne delle analogie visive. Ma l’uno come l’altro non mi sono di alcuna utilità nel presente.

 

Note: 1   Sono l’assoluto possessore della mia memoria/Le presto una voce, potente maga/Come un’arpa eolica alle brezze della sera/E ognuno dei miei sensi risuona alla sua voce/Il mio cuore mente ai miei occhi, assente vi vedo.

2) Quanto presento in questo testo è frutto delle ricerche e del lavoro di Brenno Boccadoro, docente in Musicologia all’Università di Ginevra. Mi riferisco in special modo ad un testo apparso nella rivista Art Passions nel marzo 2005.

 


Questo articolo é stato pubblicato da
Roberto Festa www.daedalusensemble.com