Musica sacra

L’arpa e la liturgia

Queste note tecniche, frutto della mia duplice attività di musicista e sacerdote sono pensate come guida orientativa per quanti si ritrovano, a vario titolo, a suonare durante una Messa. Se è vero che alla maggior parte degli arpisti capita di accompagnare la celebrazione di un matrimonio, non è affatto detto che essa sia l’unica occasione di suonare in chiesa. Una Messa solenne, un anniversario, ma anche la frequentazione abituale di una parrocchia possono portare l’arpa vicino ad un altare. Queste note si riferiscono dunque alle norme che regolano l’esecuzione musicale sia durante le Messe nuziali che durante le Messe ordinarie e credo siano sufficienti a guidare un qualunque musicista nel compito di suonare in chiesa, spesso disorientato più che rassicurato dalle rapide spiegazioni offerte dal parroco cinque minuti prima dell’inizio del rito.

Ho inoltre ritenuto opportuno inserire alcune osservazioni riguardanti i canti previsti dalla liturgia. Per ovvie ragioni chi suona ai matrimoni esegue di norma solo “interludi”, tuttavia la partecipazione dei fedeli alla liturgia si esprime principalmente nel canto e un buon musicista deve essere preparato all’evenienza. Il discorso può essere più specificamente rivolto a chi suona abitualmente in una chiesa; la prassi, per quanto ancora poco diffusa, può rivelarsi molto formativa sia per chi suona, sia per chi ascolta. Non sarebbe in fondo una cattiva idea se in alcune chiese le chitarre elettriche e le tastiere di qualche dilettante fossero sostituite dall’arpa di un professionista o di uno studente: per secoli le chiese hanno costituito il primo luogo di alfabetizzazione musicale dei bambini. Non dimentico l’aneddoto raccontatomi dalla prof.ssa Luciana Chierici, che, ancora bambina, non sopportando di cantare “a orecchio” nel coro polifonico della parrocchia, chiese all’organista di insegnarle a leggere le note, e fu il primo passo della sua luminosa carriera di concertista e didatta.

Il primo grande interrogativo che si pone chi suona in una chiesa è: quando devo suonare? Un tempo i rudimenti della liturgia, insieme alle norme essenziali per accompagnare la monodia gregoriana erano materia d’insegnamento nelle classi di organo, ma sono ormai scomparse anche dalla formazione dei colleghi organisti. Rimandando ad un eventuale ulteriore intervento la teoria dell’accompagnamento del canto gregoriano (magari adattato all’arpa) ho pensato di fornire uno schema pratico per quanti, dovendo suonare ad una Messa, sono dilaniati dal dubbio se sia il momento opportuno per suonare oppure no.

Struttura della Messa

Introito (o ingresso)

Costituisce l’inizio della celebrazione e si compone ordinariamente di una processione (lunga o breve) dalla sacrestia all’altare, dal bacio rituale dell’altare e dalla sua incensazione.

Anticamente durante questa fase del rito la schola cantorum eseguiva un canto processionale detto appunto introitus; quando l’epoca barocca iniziò ad apprezzare l’uso liturgico della musica strumentale esso fu spesso sostituito da brani dall’incedere solenne, spesso marziale. Le celebri marce liturgiche di G. F. Haendel, J. Stanley, J. Alcock, J. Travers sono pensate proprio per le lunghe processioni introitali dei riti anglicani; lo stesso notissimo Pump and Circumstance op. 39 di Edward Elgar, con le sue cinque marce, è direttamente ispirato ad esse.

Nelle attuali celebrazioni cattoliche (se si escludono le grandi cattedrali o i monasteri di antica osservanza) l’introito ha perso qualunque dignità celebrativa riducendosi alla frettolosa uscita del prete dalla sacrestia; l’intervento di un musicista (per quanto breve) potrebbe ridargli senso e interesse simbolico. Diverso è il caso dei matrimoni in cui (pur contravvenendo alle norme liturgiche) il sacerdote già rivestito dei paramenti attende l’arrivo della sposa davanti all’altare. Siccome l’uso è universalmente invalso, tanto vale fare di necessità virtù e accompagnare la sfilata della sposa con l’incedere solenne di qualche marcia di scuola inglese o francese che, oltre all’indubbio valore artistico di aver evitato le ormai insopportabili marce nuziali, contribuirà ad elevare il tono della celebrazione da quello di una sfilata di atelier.

Riti di introduzione

Sono l’inzio vero e proprio della liturgia, in cui il celebrante, giunto alla sua sede, intona l’In nomine Patris (“Nel nome del Padre…”) proseguendo con i riti penitenziali Confiteor–Kyrie–Misereatur (“Confesso”–“Signore pietà”–“Dio onnipotente abbia misericordia…”) seguiti, solo nelle domeniche, nelle Feste e nelle Solennità, dal Gloria in excelsis. Questo momento non prevede il suono degli strumenti, salvo che per accompagnare il canto del Kyrie e del Gloria, qualora lo si ritenesse opportuno.

Liturgia della parola

Terminati i riti di introduzione tutti siedono mentre un lettore legge dall’ambone le letture previste: nei giorni feriali ne è prevista una sola, seguita dal salmo responsoriale, mentre nei giorni festivi se ne legge una seconda dopo il salmo. Il salmo è, per sua natura, una composizione poetica che richiede di essere cantata. Personalmente ho sempre trovato molto triste ascoltare un solo lettore che legge tutto d’un fiato le due letture e il salmo: esso è pensato come un momento meditativo che si esprime nel canto, in risposta alla parola di Dio. Il testo, riportato nel lezionario, può essere facilmente musicato con una delle tradizionali otto melodie gregoriane o da altre semplici melodie che permettano alla gente di ripeterle; accompagnarle con l’arpa mi pare il più degno tributo alla tradizione semitica.

Terminata la seconda lettura si esegue (tranne che in quaresima) il canto dell’Alleluia; anche qui lo strumento si limita ad accompagnare la voce. Di norma non sarebbe consentito sostituire il canto dell’Alleluia con altre forme, siano pure mottetti sacri: dunque anche se si dispone della collaborazione di una voce lirica, l’esecuzione dell’immancabile Exsultate, jubilate è da sconsigliarsi. All’arpista il compito di convincere la primadonna a eseguire un più banale alleluia a cui l’assemblea possa unirsi.

Segue la lettura del Vangelo (raramente lo si canta, e ancora più raramente lo si canta con dignità musicale) e la predica del sacerdote. Non si suona, non si canta, non si accorda lo strumento: se –come spesso accade– la noia è invincibile, si esce discretamente a fumare una sigaretta.

Nelle Messe nuziali alla predica segue il matrimonio vero e proprio. La musica non sarebbe prevista, ma non è inopportuno riempire i silenzi che seguono lo scambio delle fedi (sia che segua il tradizionale bacio degli sposi, sia che seguano immediatamente gli adempimenti burocratici delle firme dei registri).

Offertorio

Nelle Messe ordinarie alla predica segue, dopo un breve momento di meditazione, la recita del Credo (quando è previsto) e la preghiera dei fedeli (nelle Messe nuziali solo la preghiera dei fedeli). Subito dopo inizia il rito di offertorio in cui vengono portati all’altare il pane e il vino, e il sacerdote li presenta con la formula Benedictus es Domine Deus (“Benedetto sei tu Signore, Dio dell’Universo…”); spesso il sacerdote incensa i doni, l’altare, l’assemblea. È buona norma accompagnare questo momento del rito con un interludio (magari a carattere meditativo), anche nei momenti in cui il sacerdote recita le formule ad alta voce. Un accorto esecutore di chiesa deve sapere che il momento opportuno per smettere di suonare è il Lavabo cioè il breve rito in cui un ministrante versa un po’ d’acqua sulle mani del sacerdote. Sia come arpista che come organista ho imparato a tenere d’occhio questo momento: non dura molto, ma pur sempre abbastanza per improvvisare una cadenza finale.

Consacrazione

Terminato il Lavabo inizia la preghiera di consacrazione: essa si compone di una breve preghiera super oblata, della Praefatio e della Prex eucharistica vera e propria. Durante questo tempo non si suona, se non per accompagnare il canto del Sanctus al termine della Praefatio. L’uso ottocentesco di suonare all’Elevazione è stato assolutamente proibito dalle riforme liturgiche (per curiosità storica, quello fu il momento più esposto a eccessi musicali: per sottolineare l’importanza della Consacrazione si eseguivano i più fracassosi passi operistici o spettacolari brani appositamente composti –le celebri Elevazioni di P. Davide da Bergamo– ed è la ragione per cui numerosi organi nel corso del XVIII e del XIX secolo sono stati provvisti di grancasse, percussioni e turcherie attirando agli organisti cattolici il meritato rimprovero dei colleghi luterani d’oltralpe).

Comunione

Se si eccettua l’accompagnamento al canto del Pater noster e dell’Agnus Dei, gli strumenti tacciono fino al momento della distribuzione dell’Eucaristia (Comunione), durante la quale è lasciata libera espressione ai musicisti, tenendo comunque d’occhio i movimenti del prete: quando, terminata la distribuzione dell’Eucaristia e purificati calice e patena torna a sedersi è il momento di guadagnare una cadenza conclusiva.

Se qualche musicista desideroso di elevare gli spiriti dei fedeli con la sua arte avesse l’impressione di veder limitato il proprio ruolo dalle prescrizioni liturgiche, può legittimamente adottare l’uso degli organisti tedeschi di accompagnare l’entrata e l’uscita dei fedeli dalla chiesa. In fondo la forma bachiana del Preludio e fuga era dettata dalla stessa esigenza liturgica: il preludio si eseguiva nell’attesa che iniziasse la funzione, e la fuga al termine. Preludi e fughe possono essere liberamente sostituiti dal gusto dell’esecutore, pur sempre attento a non approfittare dell’occasione per provare l’effetto della Légende della Renié o le Variazioni di Salzedo.

Suggerimenti per la scelta del repertorio

Ho sempre pensato che dare consigli sulla scelta della musica da suonare sia un compito assai serio e delicato. Per questa ragione le osservazioni seguenti avranno carattere assolutamente generico: il vero arbiter elegantiarum resta sempre il (buon) gusto personale e la cultura musicale individuale. Se poi riflettiamo che per un buon 90% dei fedeli convenuti la chiesa resta l’unica possibilità di formarsi una qualche idea della musica classica la scelta del programma ci apparirà come un affare serio.

Anzitutto mi pare necessario che nella stesura di un programma musicale si crei una dialettica tra i sommi principi estetici di coerenza e varietà; recitals e concerti degli arpisti rispondo sempre di più a questa esigenza estetica. Molto meno, spiace dirlo, gli interventi musicali che mi capita di sentire ai matrimoni: una Marcia nuziale di Mendelssohn (che in qualunque trascrizione suonerà sempre tristemente inadeguata all’arpa), un Canone di Pachelbel (che sull’arpa fa lo stesso effetto di una fuga di Bach suonata al mandolino), l’Entr’acte del III atto della Carmen o la Meditation della Thaïs di Massenet, Prière, Angelus, Romance sans parole, il movimento lento della sonata che si ha sotto mano al momento e, per finire, il I o il III tempo del Concerto in sib di Haendel e il gioco sembra fatto. Eppure normalmente anche l’ascoltatore meno provveduto ha l’impressione di un’accozzaglia di stili il cui principale filo conduttore è la scelta del miglior kitsch musicale riesumato per l’occasione.

Per “andare sul sicuro” ci si può senz’altro rivolgere a quei periodi storici in cui la musica strumentale sacra e quella profana non avevano ancora isolato un linguaggio autonomo: il secolo XVII e la prima metà del XVIII appaiono senz’altro i più adatti allo scopo. Esplorare quest’universo può costituire per molti arpisti un’impresa entusiasmante oltre ad offrire l’occasione per fare la conoscenza di autori e stili poco frequentati che potrebbero rivelare un’inattesa congenialità alle mani dell’esecutore ed entrare poi nel repertorio concertistico propriamente detto.

Giusto per fare alcuni nomi ricordo Robert de Visée, Louis Couperin il cui gusto indefinito dei Préludes non mesurés contrasta squisitamente con il rigore formale delle sue Ciaccone e Passacaglie; altrettanto stimolante è l’esplorazione degli Ordres di Francois Couperin (Le Grand) dalla cui varietà ogni esecutore può costruire una personale scelta di brani; i Noëls di J. F. Dandrieu, le Suite di J. Boyvin, le Messe di N. Le Bèuge, i Concerti di G. Corette, le raccolte di L. Marchand e N. Clèrambault sono tutte possibilità per introdurre l’arpista nel brioso mondo della classicità strumentale francese con le sue forme caratteristiche del Basse, Dessus, Dialogue, Récit. Per quanto riguarda gli autori italiani segnalo senz’altro la vasta scelta offerta dalle Sonate d’intavolatura del gesuita Domenico Zipoli che risparmiano all’arpista le contorsioni cromatiche di molte opere di Frescobaldi e garantiscono –grazie anche ad una struttura contrappuntistica assai meno articolata del precedente– una resa sonora davvero sorprendente. Anche l’universo degli organisti veneziani riserva gradite sorprese: dato che gli strumenti in voga sulla laguna nel XVII secolo possedevano di norma un’unica tastiera ed una pedaliera ridottissima i brani composti su di essi possiedono una straordinaria adattabilità al potenziale esecutivo dell’arpa. Un esempio tra tutti è la Sonata in do min. di G. B. Pescetti. Agli arpisti interesserà certamente sapere che questo celebre brano ha altre otto sorelle edite e numerose altre inedite.

Alcune considerazioni merita poi l’ambito compositivo germanico: la riforma luterana diede un impulso impareggiabile alla produzione di musica religiosa che si contraddistingue per il rigore stilistico, la sobrietà dello stile, la severa formalizzazione delle strutture armoniche. Tuttavia questo vasto campo pone alcuni limiti di non facile superamento per l’arpista anche tecnicamente provveduto. Inoltre l’ideale estetico a cui rispondono le composizioni della riforma protestante è circoscritto alla fonica dell’organo, e, a differenza di quanto attestato per la prassi esecutiva francese e italiana, la liturgia luterana non ammetteva ai tempi di Buxtehude e Bach altro strumento solista all’infuori dell’organo. Personalmente credo possibile un compromesso tra limiti filologici e tecnici posti dall’arpa e il desiderio degli esecutori di non eliminare dal proprio orizzonte le composizioni di scuola germanica: Pachelbel, Buxtehude, Bach, Walther hanno accostato alla produzione con specifica destinazione ecclesiastica una produzione profana stilisticamente non dissimile dalla precedente, ma di architettura meno unidirezionalmente organistica. Ad esempio le Partite manualiter di Bach, o le Suite di Buxtehude; sempre per restare all’interno dell’universo bachiano sono da segnalare le Suite per liuto che presentano nei Preludi delle forme contrappuntistiche assai più abbordabili di quanto non lo siano (ammesso che lo siano) le fughe dei Preludi e fughe. Ancora a mio giudizio perfettamente eseguibili in un contesto ecclesiastico sono le Suite francesi o una scelta di movimenti dai Konzerte für Klavier di vari autori (Vivaldi in primis) che Bach trascrisse per strumenti a tastiera. Mi sentirei invece di sconsigliare assolutamente il “riciclo” delle celebri trascrizioni “Bach-Grandjany”, oggi molto in voga nei programmi da concorso. Pur non entrando nel merito della liceità di trasporre brani composti esplicitamente per violino sull’arpa, credo comunque innegabile che lo stile della trascrizione “alla Grandjany” risponda ad un’estetica concertistica squisitamente tardoromantica, e dunque poco adeguata alle necessità della musica liturgica.

Prima di concludere questo breve excursus su autori ancora poco esplorati dagli arpisti del terzo millennio vorrei indirizzare lo sguardo verso la prolifica scuola inglese. Curiosamente la riforma della Church of England sembra aver voluto indirizzare il genio religioso più verso la produttività musicale che verso la trattatistica teologica. Vale la pena approfittarne! Le raccolte di autori inglesi per organo, virginale (a partire dal famosissimo Fitzwilliam’s Virginal Book) o più generalmente Keybord, abbondano nel catalogo di ogni editore. Per chi ama il gusto della musica più arcaica senza sottostare ai limiti imposti dalle arpe senza pedali, ci sono le opere di T. Tallis, le Pavane e le Fantasie di W. Byrd, i Preludi di J. Bull e di O. Gibbons o l’opera degli “organisti clandestini” M. Locke, W. Croft, J. Clark, J. Blow che, vistasi impedita l’esecuzione liturgica dal regime di Cromwell, indirizzarono la loro felice vena compositiva verso strumenti allora ritenuti “profani”.

Ancora resterebbe da parlare delle scuole spagnola e fiamminga, ambedue così caratteristiche sia nelle forme che nelle sonorità, da invogliare ogni musicista a sperimentarle sul proprio strumento. Ma non volendo dilungarmi oltre concludo sottolineando la necessità di ricercare forme adeguate tanto all’estetica liturgica –sobria, ma non per questo noiosa– che alle possibilità tecniche dello strumento (e dell’esecutore). La ricerca del repertorio mi pare oggi una prassi ineludibile per qualunque esecutore, e il campo della musica religiosa è certo assai ampio e invitante. Resta aperto tutto l’orizzonte della musica romantica, post–romantica e contemporanea: per ragioni di brevità non lo possiamo affrontare in questa sede, ma conto di farlo in ulteriori contributi. In ultimo un’indicazione bibliografica: per chi desiderasse una panoramica a volo d’uccello sugli autori qui citati e sullo stile che contraddistingue ciascuno di essi, un ottimo punto di partenza sono le antologie per organisti del secolo scorso. Ogni organo di chiesa ha sulla consolle almeno uno dei volumi curati da Fernando Germani, Ferruccio Vignanelli, Alessandro Esposito e Sandro Dalla Libera, opere che, sebbene poco rispondenti all’odierno occhio filologico hanno pur sempre il grande merito di offrire al musicista ancora poco esperto una grande varietà di linguaggi, forme e stili, selezionati da quei grandi maestri nel corso della loro lunga attività al servizio della musica liturgica. A noi non resta che voltarne le pagine, lasciandoci guidare dal nostro gusto, dalla nostra tecnica, dalla nostra sensibilità e, soprattutto, da quella curiosità che non deve mai mancare a un musicista. 


Questo articolo é stato pubblicato da
Lorenzo Montenz OSB