Orchestra

Intervista con Lisetta Rossi

lisetta

1. Come è iniziata la tua attività orchestrale?

L. – Appena dopo il diploma ho vinto il concorso per il posto di prima arpa dell’Orchestra Sinfonica Siciliana e mi sono stabilita a Palermo. Ritengo di essere stata fortunata a non dover fare la “gavetta”, per quanto formativa possa essere, in orchestre raccogliticce e spedizioni punitive, come si dice in gergo.

L’inizio non fu facile, avevo per unica esperienza la lettura scolastica di alcune pagine del repertorio operistico e sinfonico ed essendo l’unica arpista dell’orchestra, non potevo contare sull’appoggio e i consigli di una collega più esperta. Durante i miei studi nei conservatori di Firenze e Venezia, l’unica volta che mi trovai davanti alla bacchetta di un direttore fu in occasione del saggio finale dell’anno del diploma, con le Dances di Debussy, mentre non c’era mai stata l’occasione di frequentare i corsi di esercitazioni orchestrali cosa che, purtroppo, succede frequentemente anche agli studenti di oggi.

Come solista non ebbi nessuna difficoltà, ma pochi mesi dopo mi trovai in una situazione completamente diversa. L’impatto con il ruolo in orchestra avvenne con l’Orlando Furioso di Goffredo Petrassi, che fu un corso accelerato per afferrare i primi rudimenti della professione. Gran parte di quella stagione fu dedicata a Ravel e ben presto mi dovetti cimentare anche con Tzigane, La Valse, Rapsodia spagnola, Alborada del graçioso, Bolero.

Imparai che le prime regole sono poche e semplici: cercare di conoscere il pezzo prima dell’inizio delle prove, sapere la parte e prepararla accuratamente scrivendo pedali, diteggiature, guide, annotazioni utili e accordare con cura. Non esistevano gli accordatori elettronici né i microfono a contatto e io presi l’abitudine, che ho tutt’ora, di arrivare almeno un’ora prima degli altri colleghi.

Mi preparavo anche servendomi di dischi che mi aiutavano a conoscere e capire i pezzi in programma e ad orientarmi nello studio della mia parte.

Un altro aiuto mi veniva da un collega violinista anziano, che ringrazierò sempre, di piccolissima statura, gentile e garbato, al quale potevo chiedere di chiamarmi in determinati punti e sempre pronto, quando mi perdevo come succede a novellini e non, a dirmi dove eravamo.

In mancanza di una preparazione alla tecnica e al repertorio orchestrale, bisogna elaborare le proprie strategie e usare qualunque appiglio; io ho perfino visto scritto su parti d’opera “BUM!” per ricordarsi che lì c’era un colpo di grancassa, o “PAPAPÀ” come guida delle trombe. A mali estremi, estremi rimedi.

 

2. Raccontaci le tue esperienze alle prime audizioni…

L. – In quelle rare situazioni mi sono sempre sentita un po’ frastornata. Penso che mi mancasse la concezione della competizione e mi spiazzava trovarmi improvvisamente fra molte arpiste nello stesso posto, per fare le stesse cose, a comando.

Mi sono sempre preparata da sola e solo in seguito ho capito che sarebbe stato rassicurante avere alle spalle il sostegno pratico e psicologico di un professionista ferrato.

Sia per esperienza diretta che da quanto mi riportano arpiste giovani che si presentano spesso alle audizioni, so che raramente le condizioni oggettive sono quelle ideali per accordare, concentrarsi e prepararsi psicologicamente. Certo è che in orchestra servono prontezza, sangue freddo e capacità di reazione in qualunque condizione; fa forse parte della pre-selezione mettere tutti insieme a scaldarsi nella stessa stanza o nei corridoi, o non dare la possibilità di provare adeguatamente lo strumento, non sempre idoneo, per vedere chi reagisce meglio?

Trovo che il metodo di selezione potrebbe essere ampliato e basato, oltre che sulla prova d’esame, anche su una prova in orchestra, come accade in altri paesi. Lo strumentista d’orchestra, oltre ad eseguire correttamente la propria parte, può dare il suo miglior contributo alla resa musicale dell’esecuzione e non è detto che la persona, magari neo-diplomata, che esegue meglio un brano solistico e dei passi ben preparati, debba essere quella più adatta al ruolo da ricoprire. Qualità del suono, ricchezza dinamica, timing, intonazione, senso ritmico, flessibilità e prontezza, maturità musicale determinano la qualità dell’esecutore.

Di questo tengono conto alcune commissioni e lo stesso dovrebbero fare i concorrenti che, invece, a volte sono scontenti della valutazione ricevuta e persuasi di aver subito un’ingiustizia.

Consiglio di chiedere ai commissari il loro giudizio ed eventuali suggerimenti, per confrontare la propria valutazione con quella degli esperti; questi motiveranno le loro opinioni e sarà bene considerarle obiettivamente e con apertura mentale, senza rifiutarle in quanto critiche o non gratificanti.

 

3. Quali sono state le orchestre che professionalmente ti hanno dato gli stimoli maggiori?

L. – Un’esperienza emozionante, nuova, importante, e rara perfino per le arpiste italiane che lavorano nei teatri di tradizione, è stata trovarmi immersa nelle opere della tetralogia di Wagner, con la regia del grande Graham Vick, nelle ultime stagioni liriche del Teatro Saõ Carlos di Lisbona.

In precedenza, ho lavorato con l’orchestra della RAI di Milano per cinque anni e per altrettanti con quella di Torino, suonando con ottimi direttori e solisti ed eseguendo repertorio per grande orchestra, soli importanti e prime mondiali.

Con la prima ho potuto suonare tutte le sinfonie di Mahler nelle quali l’arpa ha parte; con la seconda ho trovato particolarmente interessante, fra l’altro, proseguire la pratica della musica del ‘900 iniziata già molti anni prima con Laborintus di Berio, diretto da Muti al Maggio Fiorentino, in cui dovevo anche declamare delle frasi in latino. Lavorando nei festival di musica contemporanea sinfonica e da camera della RAI di Torino e trattando l’opera di decine di autori viventi di tutte le culture, da quelli più affermati ai più giovani, mi sono addentrata in molti tipi di linguaggio e di scrittura e musicale. A stretto contatto con gli autori, ho avuto occasione di sperimentare tantissimi effetti e tecniche, oltre a quelli ormai integrati nella tecnica strumentale, mettendo in pratica anche conoscenze teoriche come la scordatura con i quarti di tono, e le trovate più fantasiose di ciascun compositore. Sorprendente e affascinante è stato ascoltare virtuosi di strumenti particolari come il didgeridoo australiano o lo erhu cinese, solisti nei concerti con l’orchestra per la Biennale di Venezia 2007.

 

4. C’è qualche direttore in particolare che ami ricordare?

Mi piace ricordare Riccardo Muti che, dopo avermi improvvisato un’audizione informale per il Maggio Fiorentino, mi dette buoni consigli e la sua fiducia, facendomi scritturare dal Teatro Comunale di Firenze. Quando fu sul podio lo vidi in un’altra luce: era molto autoritario e metteva soggezione, e non solo a me.

Ce ne sono diversi altri, anche fra i grandi, ma i miei ricordi più sentiti riguardano direttori conosciuti e amati, pur se non famosissimi.

Ho suonato con Vladimir Delman in Mahler, Tchaikovsky , Berlioz e Strauss alla RAi di Milano. Un “forgiatore” di orchestre, come è stato detto di Chelibidache, Abbado, Muti. Il gesto enigmatico, ma la parola evocatrice del significato e delle situazioni musicali. Estenuante nella sua insistenza sulla ricerca del suono, dei pianissimo e della tensione estrema delle frasi, esigeva due settimane di prove per una sinfonia di Mahler. Infaticabile, al limite della intransigenza e scontrosità, era un uomo ritenuto non facile. Piccolo, il viso nascosto dagli occhiali e dalla grande barba bianchissima e incolta come i capelli, era soprannominato il Puffo; si lavava ossessivamente le mani con alcool ed evitava di toccare cose e persone ma, entrando sul palcoscenico mi passava vicino e mi dava una leggera pacca sulla nuca. Massima espressione di simpatia!

Angelo Campori è un’altra persona speciale e non facile, e che per questo non ha fatto la carriera internazionale da grande musicista qual è. Con lui ho suonato Puccini e Verdi. Mi è rimasto impresso il suo sguardo magnetico, a 360° sull’orchestra, sui cantanti e sulla scena. Quando qualcosa non andava lo sguardo diventava fulminante. Una grande energia, musicalità e lucidità mentale gli davano una naturale autorevolezza che magnetizzava tutti. Con il contatto continuo dello sguardo e del gesto, che era un tutt’uno con il più piccolo particolare della musica, manteneva la tensione espressiva e disegnava con la bacchetta ogni inflessione, accento, sospensione o suddivisione. Bastava accordarsi al suo gesto e tutto diventava espressione, suono, colore, ritmo.

Molto più giovane e certo non problematico Cristian Thielemann, un direttore della mia stessa generazione e ora celebre, che ricordo quando, già primo maestro di cappella della Rheinoper di Düsseldorf, mi diresse nel Concerto di Mozart K299. Univa alla sua bravura una cordiale disponibilità e gentilezza che mise a tutti a proprio agio, solisti e orchestra.

 

5. Quale tipo di studio preparatorio consigli ai giovani che intendono affrontare le audizioni per lavorare in orchestra?

Suggerisco di prepararsi con qualcuno che ha esperienza d’orchestra e, possibilmente, di audizioni.

Può succedere di non riuscire a partecipare ad un’audizione perchè non si ha tempo sufficiente per preparare qualcuno dei brani solistici o degli assolo e passi richiesti.

Per cercare di ovviare a questo, è utile iniziare a studiare gradualmente il repertorio orchestrale già durante gli anni di studio e continuare sempre ad ampliarlo, in modo da evitare il sovraccarico di materiale nuovo che può derivare da liste di passi che variano da un’audizione all’altra; ugualmente, il repertorio solistico padroneggiato deve essere piuttosto ampio, perché tutte le parti della prova devono essere sostenute con sicurezza e maturità.

L’importanza del livello di preparazione dei passi d’orchestra non è da sottovalutare, perché questi sono determinanti nel giudizio della commissione, così come la prima vista; anche per questa prova bisogna prepararsi facendo molto esercizio e l’unica previsione che si può tentare di fare è considerare il programma della stagione in corso dell’ente che bandisce l’audizione.

Per farsi un’idea di cosa studiare può servire consultare i bandi di più audizioni e concorsi per vedere quali sono i brani e i passi che ricorrono e metterli in repertorio.

Si possono reperire moltissimi passi d’orchestra su internet (es. The orchestra musician CD ROM Library) o acquistando le varie raccolte pubblicate in cartaceo. Suggerisco, comunque, di preparare i passi d’orchestra lavorando con CD e partitura.

 

6. Quali sono secondo te i passi musicalmente più interessanti e/o difficili del repertorio che si suona abitualmente in orchestra?

E’ difficile dire cosa si suoni abitualmente, dipende dalle orchestre in cui si lavora e dal loro repertorio.

Ritengo che, in generale, sia più difficile eseguire il repertorio operistico che non quello sinfonico o quello ballettistico.

Un musicista esperto può suonare qualsiasi cosa del repertorio sinfonico anche se non la conosce, mentre affrontare un’opera senza avere esperienza nella lirica è più problematico.

Qui, la necessità di maggiore flessibilità, duttilità agogica e conoscenza delle convenzioni può rendere insidioso anche il semplice accompagnamento di un’aria, se non la si conosce abbastanza.

In questo ambito mi piace molto suonare Puccini, in particolare, perché l’arpa ha sempre un ruolo molto importante e perfettamente integrato nell’insieme e le parti sono belle, intense e ricche sia dal punto di vista musicale che strumentale. Nel mondo del tutto diverso delle opere di Donizetti, che ho suonato a Bergamo negli otto anni con i Pomeriggi Musicali di Milano, ci sono diversi Soli, fra i quali è conosciuto solo il più difficile, quello da Lucia di Lammermoor.

Nel repertorio sinfonico ho trovato molto impegnativi e di grande soddisfazione sia La Mére di Debussy che Daphne e Clohé di Ravel, così come Mahler, Strauss, Stravinsky, Il Poema dell’estasi, la Sinfonia fantastica e i balletti di Tchaikovsky nelle loro versioni integrali. Recentemente ho trovato, nella Sinfonia delle Alpi, uno di quei passaggi che, almeno nella mia esperienza, non sono moltissimi ma che sono oggettivamente ineseguibili e che è meglio semplificare a favore della fluidità e della chiarezza; resta ovvio che non è il caso di approfittare di ogni occasione per ridurre le difficoltà e che il buon strumentista deve essere in grado di eseguire quanto scritto per il suo strumento.

Ho eseguito molti degli Assolo che si studiano di prassi, che sono impegnativi in se stessi e lo diventano ancora di più per l’impatto emotivo: quando si presentano si è soli, appunto, ci si percepisce del tutto esposti; ho trovato che è più facile gestire questo aspetto se si fa riferimento al senso musicale della partitura, considerando il Solo come un passaggio di questo insieme.

Bisogna fare attenzione a non focalizzare l’attenzione solamente sui Soli, correndo il rischio di trascurare altre pagine dell’opera che li contiene. Se non la si conosce, è bene procurarsela perché è un peccato eseguire bene il Solo e “andare a gambe all’aria” subito dopo.

Per un’arpista d’orchestra gli Assolo sono più rari che per le altre prime parti, ma moltissimi degli interventi dell’arpa sono scoperti e delicati. Considerare un passo nel suo contesto ci eviterà di sottovalutarlo. Risolto l’aspetto strumentale, la criticità può derivare da vari fattori come tempo, intonazione, ritmo, da una imprecisione tecnica. Non aver previsto una velocità diversa, una difficoltà ritmica particolare o un ritmo differente nelle altre sezioni possono destabilizzare; un passaggio di poca difficoltà negli acuti, se all’unisono con l’ottavino, può riuscire male se l’accordatura o la dinamica non sono equilibrate, e un semplice intervento con suoni armonici sarà disturbato da armonici falsi.

Oltre alla padronanza della propria parte, indispensabile per poter ascoltare gli altri e seguire il direttore, la regola fondamentale di sapere cosa succede intorno a sé dà sicurezza e permette di suonare in maniera musicale, il che facilita qualunque passo.

 

7. Secondo la tua esperienza di arpista e di docente, credi che sarebbe utile istituire dei corsi specifici dedicati alla prassi orchestrale?

L. – Penso che siano una necessità imprescindibile. Questa disciplina fa parte dell’offerta formativa dei corsi superiori triennali e biennali e credo che sarebbe opportuno aprire i corsi anche agli studenti del vecchio ordinamento. Con l’auspicata interdisciplinarietà dei corsi, questi laboratori potrebbero essere strutturati, oltre che con l’ausilio di supporti audio e video, con la collaborazione di un pianista accompagnatore di allievi o docenti di direzione di orchestra e, possibilmente, di piccoli ensemble per i quali ridurre le partiture. Questo potrebbe mettere in collaborazione le classi di diversi strumenti, di composizione e orchestrazione, di direzione d’orchestra e di musica da camera.

 

8. Come vedi oggigiorno la situazione delle orchestre italiane in generale?

L. – La situazione è sotto gli occhi di tutti. Mi dispiace per la cultura musicale italiana e per i giovani, che non hanno un ruolo in cui identificarsi né prospettive professionali. La decimazione delle orchestre è iniziata nei primi anni ’90, con la chiusura delle orchestre e dei cori della Rai; colleghi trasferiti da Napoli a Roma arrivarono a Milano, per vedere chiudere anche quell’orchestra, nel’94.

La catena dei trasferimenti finì a Torino, l’alternativa era stata la scelta fra un’indennità di buonuscita o mansioni impiegatizie.

Simili criteri di valutazione del ruolo sociale della musica e dei musicisti che usò allora l’azienda di stato sembrano, purtroppo, aver guidato le recenti considerazioni e scelte dei nostri ministri a proposito della cultura musicale, della vita dei teatri e dell’insegnamento della musica.

Individuare delle eccellenze e sminuire il resto mi sembra molto dannoso.

Se nell’ordinamento dell’istruzione musicale mancano le scuole di base penso che, per quanto riguarda le orchestre, manchino realtà medio-piccole professionalmente riconosciute e valide in cui potersi qualificare e fare esperienza e dalle quali si possa prendere l’avvio verso posti più prestigiosi. In Germania le orchestre riservano agli studenti di livello avanzato un canale particolare, destinando una quota della loro produzione all’inserimento-formazione (retribuita) dei giovani, che hanno la possibilità di trovarsi in grandi orchestre ed affiancare professionisti dai quali imparare. Da noi, dalla mancanza di questi presupposti, deriva il fatto che le audizioni e i concorsi siano aperti a chiunque, senza una pre-selezione in base al curriculum professionale, mentre altrove si partecipa su invito. Questo può falsare l’auto-valutazione e provocare frustrazione in molti partecipanti.

Se le nostre orchestre stabili e semi-stabili sono poche e sempre più in difficoltà, anche le piccole orchestre che proliferavano con produzioni modeste e volanti e che davano ai giovani qualche possibilità di fare pratica, di iniziare a realizzarsi e di procurarsi delle minime referenze, opportunità contese con le unghie e con i denti, hanno sempre meno possibilità di sopravvivere.

La necessità e il desiderio di lavorare costringe i musicisti ad accettare remunerazioni sempre più ridotte o a lasciare il campo a persone sempre meno qualificate, mortificando sé stessi e la musica.

 


Questo articolo é stato pubblicato da
Redazione Redazione di IN CHORDIS, la rivista online dell'Associazione Italiana dell'Arpa.